Museo Diocesano

Il Museo Diocesano “San Matteo” ha sede nello storico Seminario Arcivescovile, ultima sede della prestigiosa scuola medica salernitana

Il Museo diocesano “San Matteo”, noto come Museo degli Avori Salernitani, è senza dubbio il più importante contenitore di opere d’arte di Salerno. La sede attuale non è quella originaria, ma corrisponde al recupero della struttura del Seminario Diocesano, che, con la Biblioteca e l’Archivio, costituisce un grande polo culturale della città e della provincia. L’attuale configurazione dell’edificio corrisponde ai lavori fatti eseguire nel 1832 dall’arcivescovo Lupoli. Il patrimonio artistico del Museo comprende opere che vanno dal Medioevo al XX secolo. In esso, tra le opere principali, è possibile trovare: gli avori salernitani, la più vasta e completa raccolta di tavolette eburne istoriate del Medioevo (prima metà del XII sec.) cristiano esistente al mondo. Si tratta di 67 pezzi, di cui 37 illustrati con scene dell’Antico e Nuovo Testamento. Inoltre, è da ricordare il prezioso rotolo miniato dell’Exultet, diviso in 11 fogli pergamenacei illustranti il Preconio pasquale (praeconium paschale, annunzio della Pasqua), risalente alla fine della prima metà del XIII secolo. Tra le altre numerose opere si ricordano la Croce dipinta, detta del Barliario, degli inizi del XIII secolo; la Croce lignea di Roberto il Guiscardo rivestita da due lamine d’ottone con pietre dure e smalti traslucidi attribuiti al senese Tondino del Guerrino del 1326-1328; una ricca raccolta di tempere su tavole del XIV, XV, e XVI; alcune tele di scuola caravaggesca donate dal Marchese Giovanni Ruggi D’Aragona nel 1870 alla Cattedrale di Salerno; e infine diverse opere di pittori locali come Andrea Sabatini, il principale interprete del raffaellismo meridionale.

Il piano primo ospita varie sale espositive: la Sala dedicata agli avori medievali,la Sala del 400, La Sala dell’Exultet, la Sala del ‘500, la Sala del ‘600, la Sala del ‘700, la Sala Arte e Fede.

Il Museo diocesano “San Matteo”, noto come Museo degli Avori Salernitani, è senza dubbio il più importante contenitore di opere d’arte di Salerno. La sede attuale non è quella originaria, ma corrisponde al recupero della struttura del Seminario Diocesano, che, con la Biblioteca e l’Archivio, costituisce un grande polo culturale della città e della provincia. L’attuale configurazione dell’edificio corrisponde ai lavori fatti eseguire nel 1832 dall’arcivescovo Lupoli. Il patrimonio artistico del Museo comprende opere che vanno dal Medioevo al XX secolo. In esso, tra le opere principali, è possibile trovare: gli avori salernitani, la più vasta e completa raccolta di tavolette eburne istoriate del Medioevo (prima metà del XII sec.) cristiano esistente al mondo. Si tratta di 67 pezzi, di cui 37 illustrati con scene dell’Antico e Nuovo Testamento. Inoltre, è da ricordare il prezioso rotolo miniato dell’Exultet, diviso in 11 fogli pergamenacei illustranti il Preconio pasquale (praeconium paschale, annunzio della Pasqua), risalente alla fine della prima metà del XIII secolo. Tra le altre numerose opere si ricordano la Croce dipinta, detta del Barliario, degli inizi del XIII secolo; la Croce lignea di Roberto il Guiscardo rivestita da due lamine d’ottone con pietre dure e smalti traslucidi attribuiti al senese Tondino del Guerrino del 1326-1328; una ricca raccolta di tempere su tavole del XIV, XV, e XVI; alcune tele di scuola caravaggesca donate dal Marchese Giovanni Ruggi D’Aragona nel 1870 alla Cattedrale di Salerno; e infine diverse opere di pittori locali come Andrea Sabatini, il principale interprete del raffaellismo meridionale.

Il piano primo ospita varie sale espositive: la Sala dedicata agli avori medievali,la Sala del 400, La Sala dell’Exultet, la Sala del ‘500, la Sala del ‘600, la Sala del ‘700, la Sala Arte e Fede.

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Sala Avori Medievali

Il prestigioso ciclo degli Avori medievali proveniente dalla Cattedrale risale alla fine dell’XI e gli inizi del XII secolo.
Uniche al mondo nel loro genere, le sessantaquattro tavolette, tra cui anche tredici medaglioni e quindici frammenti di cornici, illustrano episodi tratti dal Vecchio e Nuovo Testamento: la prima parte si apre con la rappresentazione dei sei giorni della Creazione, per arrivare alle scene di Noè, i profeti e Mosè; la seconda parte ritrae vicende tratte dalla vita di Cristo, dall’infanzia alla vita pubblica, ai miracoli, alla morte, fino alla Pentecoste. Il mistero avvolge questa straordinaria opera, a partire dalla datazione, dal luogo di realizzazione, al suo impiego e all’attribuzione, riguardo cui gli studiosi si dividono ancora tra coloro che la conferiscono a una o più mani, oppure a maestranze amalfitane, o a tre maestri, ognuno autore di una parte del ciclo, teoria suffragata anche dal differente modo di raffigurare le scene: orizzontalmente gli episodi biblici e verticalmente quelli evangelici.
Difficoltoso anche identificare lo scopo per cui sono state realizzate le tavolette, tra le ipotesi più accreditate emerge quella della decorazione di un paliotto collocato dinnanzi all’altare oppure di una cattedra o di un trono episcopale.
Questa straordinaria “Bibbia in avorio” trova il suo completamento con altri 8 frammenti conservati in prestigiosi musei esteri, quali il Louvre, il Metropolitan Museum, il Museo delle Belle Arti di Budapest, i Musei Statali di Berlino, l’Hermitage di San Pietroburgo e il Museo d’arte di Amburgo, riuniti straordinariamente in occasione della mostra L’enigma degli avori medievali di Amalfi e Salerno (20 Dicembre 2007-30 Aprile 2008); e rappresenta l’espressione di una fervente congiuntura culturale che racchiude in sé elementi stilistici di assoluta novità, dove in maniera rinnovata trovano sintesi istanze di matrice medievale e bizantina con particolari riferimenti alla cultura islamica.

Sala Avori Medievali

Il prestigioso ciclo degli Avori medievali proveniente dalla Cattedrale risale alla fine dell’XI e gli inizi del XII secolo.
Uniche al mondo nel loro genere, le sessantaquattro tavolette, tra cui anche tredici medaglioni e quindici frammenti di cornici, illustrano episodi tratti dal Vecchio e Nuovo Testamento: la prima parte si apre con la rappresentazione dei sei giorni della Creazione, per arrivare alle scene di Noè, i profeti e Mosè; la seconda parte ritrae vicende tratte dalla vita di Cristo, dall’infanzia alla vita pubblica, ai miracoli, alla morte, fino alla Pentecoste. Il mistero avvolge questa straordinaria opera, a partire dalla datazione, dal luogo di realizzazione, al suo impiego e all’attribuzione, riguardo cui gli studiosi si dividono ancora tra coloro che la conferiscono a una o più mani, oppure a maestranze amalfitane, o a tre maestri, ognuno autore di una parte del ciclo, teoria suffragata anche dal differente modo di raffigurare le scene: orizzontalmente gli episodi biblici e verticalmente quelli evangelici.
Difficoltoso anche identificare lo scopo per cui sono state realizzate le tavolette, tra le ipotesi più accreditate emerge quella della decorazione di un paliotto collocato dinnanzi all’altare oppure di una cattedra o di un trono episcopale.
Questa straordinaria “Bibbia in avorio” trova il suo completamento con altri 8 frammenti conservati in prestigiosi musei esteri, quali il Louvre, il Metropolitan Museum, il Museo delle Belle Arti di Budapest, i Musei Statali di Berlino, l’Hermitage di San Pietroburgo e il Museo d’arte di Amburgo, riuniti straordinariamente in occasione della mostra L’enigma degli avori medievali di Amalfi e Salerno (20 Dicembre 2007-30 Aprile 2008); e rappresenta l’espressione di una fervente congiuntura culturale che racchiude in sé elementi stilistici di assoluta novità, dove in maniera rinnovata trovano sintesi istanze di matrice medievale e bizantina con particolari riferimenti alla cultura islamica.

Sala del Crocifisso

Nella seconda sala sono presenti manufatti e opere di diversa provenienza, tutte ascrivibili all’età medievale: la croce, che, secondo la tradizione, Roberto il Guiscardo portava sempre con sé in battaglia come protezione personale; il sigillo di Romualdo II Guarna; l’affresco del primo quarto del XIII secolo, raffigurante una coppia di Santi, probabilmente San Nicola e San Giovanni Evangelista, proveniente dalla chiesa di Santa Maria de Lama; ed il Crocifisso, detto del Barliario, proveniente dal Monastero di San Benedetto.


La croce di Roberto il Guiscardo, risalente alla seconda metà delll’XI secolo, si presenta molto rimaneggiata, è costituita da un’anima lignea, che per la forma rimanda a modelli bizantini, è rivestita da ambo i lati da due lamine di ottone dorato impreziosite con filigrana a “vermicelli” e pietre dure, tipica lavorazione palermitana, e smalti traslucidi incastonati sul recto, provenienti forse da qualche arredo liturgico.
Il sigillo agiografico di Romualdo II Guarna, datato seconda metà del XII secolo, in rame, riporta una delle immagini più antiche di San Matteo in Salerno, fu trovato in un’urna con reliquie intorno al 1950 nell’area sulla quale si elevava l’altare del Poerio all’interno del Duomo. Romualdo II Guarna di nobile famiglia longobarda è stato arcivescovo di Salerno dal 1153 alla sua morte nel 1181, medico, diplomatico, mecenate, esperto canonista e agiografo.
Il Crocifisso detto del Barliario, è un mirabile esempio di arte lignea dell’ultimo quarto del XIII secolo, che riproduce la figura del Cristo Triumphans, come vuole la tradizione orientale bizantina. Benché notevolmente rovinato durante un incendio nell’Ottocento, presenta ancora un viso fortemente espressivo ed è completato da due tabelle laterali raffiguranti la Madre e San Giovanni.

Alla storia del crocifisso si lega la tradizionale fiera locale e la leggenda dell’alchimista salernitano Pietro Barliario; si narra, infatti, che il mago, dopo aver provocato la morte dei suoi nipoti nel suo laboratorio, si sia recato a chiedere perdono ai piedi del Crocifisso, il quale, si dice abbia chinato il capo in segno di accoglimento del pentimento e di perdono.

Sala dell'Exultet

L’Exultet, esposto nella terza sala, è detto anche Preconium paschale o Laus cerei, e rappresenta l’inno liturgico con il quale un diacono o un cantore durante la veglia del Sabato Santo, dopo aver benedetto il fuoco e acceso il cero pasquale, proclama la Resurrezione di Cristo e la vittoria della luce sulle tenebre.

Si dispiega su undici fogli di pergamena caprina miniati a tempera e oro, ordinati in un rapporto inverso tra testo e immagine, in maniera tale che a mano a mano che il diacono proclamava e svolgeva il rotolo dall’ambone, l’uditorio poteva seguirne il contenuto attraverso la sua trasposizione visiva. Il primo foglio, anche se mutilo, riporta l’incipit dell’inno, vergato in scrittura gotica nastriforme con inchiostro bruno e oro applicato a conchiglia, gli altri illustrano momenti della liturgia vigiliare del Sabato Santo e del disegno salvifico di Cristo, ma senza l’accompagnamento del testo, il tutto racchiuso in una cornice su fondo oro a cerchi rossi alternati ad altri azzurri, nei quali è iscritto un romboide.

Il pregevole rotolo si configura come una delle opere più complete e meglio armonizzate nel suo genere per la varietà delle miniature e l’equilibrata fusione di elementi artistici; attualmente è smembrato ed esposto in fogli, racchiusi in teche autoclimatizzanti, ideate dall’Istituto Centrale di Patologia del Libro per consentirne una migliore conservazione e fruizione.

Dal Medioevo al Rinascimento

La quarta sala accoglie opere di diversa natura e provenienza risalenti al periodo tra XIV e XVI secolo. Immediatamente colpisce la Crocifissione di Roberto de Odorisio, tavola proveniente dalla chiesa di San Francesco in Eboli, unica opera firmata dall’autore, considerato il maggiore pittore napoletano segnato dalla venuta di Giotto, che ha saputo dare alla scena rappresentata un’interpretazione di profonda intensità poetica attraverso la scelta cromatica dello sfondo e delle vesti e l’addolcimento estenuato delle fisionomie e degli incarnati.

Sulla parete di fondo spicca il Trittico della Madonna con Bambino fra i santi Giovanni Battista, Francesco d’Assisi, Bernardino da Siena e Sebastiano del salernitano Vincenzo de Rogata del 1493-98 circa, proveniente dalla chiesa del Monte dei Morti, che mostra influenze stilistiche dei repertori figurativi adriatico-ferraresi. La costruzione volumetrica delle figure protagoniste della tavola e il trono marmoreo su cui siede la Vergine, sormontato dall’archivolto ricorda modi di composizione bramantesca, inoltre le tre coppie sono accomunate dal fondo oro, ma accolte e separate da quattro colonnine tortili su cui si impostano tre archi tribolati con cuspidi gotico-catalane.

Di considerevole importanza risulta il San Michele Arcangelo di Cristoforo Scacco, datato 1503-1505 circa, in cui riunisce l’iconografia del Santo in qualità di pesatore di anime e guerriero strenuo difensore del bene; si coglie un certo interesse per le atmosfere umbro-emiliane nelle superfici arrotondate, nelle fattezze morbide del volto e un rimando leonardesco nei monti immersi nella foschia azzurrina sullo sfondo. Dalla chiesa salernitana dei Santi Crispino e Crispiniano, già sede della Confraternita dei calzolai, proviene la tela della Pietà e Santi, risalente all’ultimo quarto del XIV secolo e attribuita ad un certo Ferrante Maglione, ultima bella voce del Trecento napoletano, che si ispira nella composizione per piani degradanti a modelli gotico-senesi e il cui linguaggio artistico risente di influenze avignonesi e dei modi pittorici di Simone Martini.
La sala, inoltre, accoglie altri pregevoli manufatti: un tabernacolo in marmo del primo quarto del XVI secolo, raffigurante una camera prospettica sormontata dalla colomba dello Spirito Santo, originariamente posizionato nella parete a fianco all’altare della chiesa dell’Annunziata; e due originali opere in alabastro calcareo, una Natività e una Pietà datate XVI secolo, una “scrittura per immagini” con alta definizione dei dettagli che richiama modelli arcaici di rappresentazione, secondo cui le dimensioni dei personaggi corrispondevano alla loro importanza teologica a dispetto di un adeguato impianto prospettico.

Sala del '500

Una rinnovata atmosfera culturale e artistica si respira all’interno della sala del ‘500, all’interno della quale si ritrovano numerose opere di Andrea Sabatini e dei manieristi del XVI secolo. Il dipinto della Pietà e Santi di Sabatini, racchiuso nella sua ricca cornice di legno intagliato e dorato, si staglia sulla parete di fronte l’ingresso: la tormentata sodezza plastica del Cristo, le membra realisticamente cadenti e rigide, il torace enfiato, il profilo aguzzo, i colori densi e decisi turbano l’occhio dell’osservatore e mostrano una delle prime sperimentazioni dell’autore nei confronti della “maniera”. Andrea Sabatini o da Salerno è considerato il capostipite del Cinquecento pittorico napoletano, promotore di un dichiarato rinnovamento, annoverato tra le personalità di spicco del rinascimento meridionale, di formazione peruginesca, accanto a moduli ancora tardoquattrocenteschi, appaiono legami con la sfera lombarda, ad esempio con Pedro Fernàndez e Cesare da Sesto. Dal 1519 si registra una svolta manieristica, influenzata dagli spagnoli Pedro Machuca e Alonso di Berruguete, come è possibile notare nella tavola della Madonna di Costantinopoli: le tenebre avvolgono l’intera composizione, al centro della quale una luce squarcia lo sfondo per fare posto alla Vergine, il tutto immerso in un violento contrasto cromatico e di luci che rendono la scena non serena. La linea manierista continua con l’Ecce Homo, attribuito a Giovan Bernardo Lama, donato al Museo nel 1939 da mons. Fortunato Maria Farina, vescovo di Foggia. Cristo, colto in uno degli episodi finali del suo processo, con il capo chino, coronato di spine si rivolge con sguardo addolorato allo spettatore, e i forti contrasti chiaroscurali, l’espressione del volto e la costruzione del dipinto, oltre a creare un forte impatto, restituiscono tutto il “patetismo devozionale” delle opere del Lama, che, in questo caso, si ispira all’ Ecce Homo dello spagnolo Luis de Vargas, conosciuto attraverso una copia conservata nel convento di San Francesco a Maiori. L’apice espressivo della “maniera tenera” è impersonato da Francesco Curia, autore della tavola Madonna del Rosario e Santi del 1600-1601. L’opera, sebbene molto danneggiata, testimonia una religiosità più pacata e devozionale, che incarna appieno il clima controriformistico, ormai lontana dalle influenze fiamminghe. L’unico manufatto scultoreo presente in sala, la Madonna delle Grazie, in terracotta, è attribuibile a Domenico Napolitano, opera di cultura tardoquattrocentesca, ma già aperta ad influenze rinascimentali di ambito raffaellesco.

Sala del '600

Opere di gusto naturalistico e di stile barocco adornano la sala VI; tutte risalenti all’area napoletana tra XVI e XVII secolo e provenienti da donazioni fatta alla Cattedrale di Salerno dall’arcivescovo Isidoro Sanchez de Luna nel 1772 e dal marchese Giovanni Ruggi d’Aragona nel 1870. La maggior parte del corpus è costituita da soggetti sacri oppure protagonisti del Vecchio e del Nuovo Testamento: patriarchi, eroi ed eroine in linea con il gusto della committenza laica per l’abbellimento delle cappelle e delle loro ricche residenze. Campeggia all’ingresso della sala la Giuditta di Francesco Guarino: la figura dell’eroina, riccamente abbigliata, domina la scena del dipinto in atteggiamento fiero e porta tra le braccia la testa di Oloferne, dopo aver compiuto l’efferato gesto. Conquistano gli occhi dell’osservatore i colori, i giochi di luce ed ombra e i toni chiaroscurali del quadro, che in passato ne hanno determinato l’attribuzione a Caravaggio. Un David giovane e popolare, attribuito a Hendric van Somer, è ritratto a mezzo busto con il bacino avvolto da un drappo bianco, la cui mano sinistra poggia sulla testa ai Golia e con l’altra regge la fionda con la quale l’ha sconfitto. La tela presenta tratti enigmatici non solo per quanto riguarda l’attribuzione, ma anche per la sua fisionomia, in quanto sullo strato inferiore si riscontrano figure di cavalli e cavalieri precedentemente dipinti, che ne dimostrano il suo reimpiego. Di estrema delicatezza e naturalezza trova spazio sulla parete destra della sala, la Madonna della rosa del cosiddetto “Guido Reni Partenopeo” Massimo Stanzione, il quale ha saputo innestare la spontaneità e la grazia dei sentimenti su un realismo di tipo caravaggesco dando una svolta fondamentale al tardomanierismo locale. Il dipinto ritrae la Vergine, restituita in tutta la sensibilità del sentimento materno, che regge sulle ginocchia Gesù recante in mano una rosa, senza spine, simbolo di purezza e rossa, simbolo del sangue versato. Un’importante attribuzione conservata in questa sala è il dipinto Gesù scaccia i mercanti dal Tempio, assegnato a Luca Giordano, che ritrae l’omonima scena evangelica, proponendo un giusto equilibrio tra realismo e gusto scenografico attraverso la resa particolareggiata dei dettagli, come le vesti, e l’uso di colori vividi che risaltano sotto un fascio di luce diffusa.

Passeggiando nella sala, l’occhio dell’osservatore rimane stupito dalla grandezza e dall’imponenza delle tele di Giovan Battista Beinaschi: Mosè fa scaturire l’acqua dalla rocca e Il Martirio di Sant’Erasmo, (quest’ultima, reinterpretazione in orizzontale dell’omonima opera di Nicolas Poussin per la Basilica di San Pietro a Roma). Complesse e fitte composizioni di figure, corpi avvolti da elaborati panneggi dominano la scena, immersi in tenebrose e cupe atmosfere. Colpisce il vigore naturalistico dell’opera, l’espressionismo dei volti e il pittoricismo visionario incupito in tonalità scure, appena squarciate da lampi di luce, che rendono le tele estremamente imponenti. D’altro canto, lo “spirito non ordinario” di Nicola Vaccaro, figlio del celebre Andrea, emerge nel dipinto Cristo e l’adultera e nelle Nozze di Cana. La composizione della scena raffigurante celebri episodi evangelici (Gv, 8, 1-11 e Gv, 2, 1-10) è costruita su scala monumentale e risulta affollata di personaggi. Il giovane Vaccaro ha saputo accomodare le sue diverse esperienze artistiche in un sobrio eclettismo di matrice barocca, arricchendo le scene con particolari ed elementi profani, che trovano il loro spazio all’interno di una spiccata vivacità cromatica.

Non da ultimo, chiude il percorso della sala VI la Sacra Famiglia di Angelo Solimena, datata 1670 circa e donata al Museo prima del 1978 da don Raffaele Carratù, parroco della chiesa di Mercato San Severino. La tela è dominata in primo piano dalle due figure femminili della Vergine, Gesù e Sant’Anna, mentre in secondo piano da i Santi Giuseppe e Gioacchino inseriti su uno sfondo architettonico costituito da mura e la base di colonna liscia. Espressione della fase matura dell’autore, l’opera condensa in essa elementi del naturalismo, del preziosismo barocco delle atmosfere caravaggesche dell’epoca.

Sala del '500

Una rinnovata atmosfera culturale e artistica si respira all’interno della sala del ‘500, all’interno della quale si ritrovano numerose opere di Andrea Sabatini e dei manieristi del XVI secolo. Il dipinto della Pietà e Santi di Sabatini, racchiuso nella sua ricca cornice di legno intagliato e dorato, si staglia sulla parete di fronte l’ingresso: la tormentata sodezza plastica del Cristo, le membra realisticamente cadenti e rigide, il torace enfiato, il profilo aguzzo, i colori densi e decisi turbano l’occhio dell’osservatore e mostrano una delle prime sperimentazioni dell’autore nei confronti della “maniera”. Andrea Sabatini o da Salerno è considerato il capostipite del Cinquecento pittorico napoletano, promotore di un dichiarato rinnovamento, annoverato tra le personalità di spicco del rinascimento meridionale, di formazione peruginesca, accanto a moduli ancora tardoquattrocenteschi, appaiono legami con la sfera lombarda, ad esempio con Pedro Fernàndez e Cesare da Sesto. Dal 1519 si registra una svolta manieristica, influenzata dagli spagnoli Pedro Machuca e Alonso di Berruguete, come è possibile notare nella tavola della Madonna di Costantinopoli: le tenebre avvolgono l’intera composizione, al centro della quale una luce squarcia lo sfondo per fare posto alla Vergine, il tutto immerso in un violento contrasto cromatico e di luci che rendono la scena non serena. La linea manierista continua con l’Ecce Homo, attribuito a Giovan Bernardo Lama, donato al Museo nel 1939 da mons. Fortunato Maria Farina, vescovo di Foggia. Cristo, colto in uno degli episodi finali del suo processo, con il capo chino, coronato di spine si rivolge con sguardo addolorato allo spettatore, e i forti contrasti chiaroscurali, l’espressione del volto e la costruzione del dipinto, oltre a creare un forte impatto, restituiscono tutto il “patetismo devozionale” delle opere del Lama, che, in questo caso, si ispira all’ Ecce Homo dello spagnolo Luis de Vargas, conosciuto attraverso una copia conservata nel convento di San Francesco a Maiori. L’apice espressivo della “maniera tenera” è impersonato da Francesco Curia, autore della tavola Madonna del Rosario e Santi del 1600-1601. L’opera, sebbene molto danneggiata, testimonia una religiosità più pacata e devozionale, che incarna appieno il clima controriformistico, ormai lontana dalle influenze fiamminghe. L’unico manufatto scultoreo presente in sala, la Madonna delle Grazie, in terracotta, è attribuibile a Domenico Napolitano, opera di cultura tardoquattrocentesca, ma già aperta ad influenze rinascimentali di ambito raffaellesco.

Sala del '600

 

Opere di gusto naturalistico e di stile barocco adornano la sala VI; tutte risalenti all’area napoletana tra XVI e XVII secolo e provenienti da donazioni fatta alla Cattedrale di Salerno dall’arcivescovo Isidoro Sanchez de Luna nel 1772 e dal marchese Giovanni Ruggi d’Aragona nel 1870. La maggior parte del corpus è costituita da soggetti sacri oppure protagonisti del Vecchio e del Nuovo Testamento: patriarchi, eroi ed eroine in linea con il gusto della committenza laica per l’abbellimento delle cappelle e delle loro ricche residenze. Campeggia all’ingresso della sala la Giuditta di Francesco Guarino: la figura dell’eroina, riccamente abbigliata, domina la scena del dipinto in atteggiamento fiero e porta tra le braccia la testa di Oloferne, dopo aver compiuto l’efferato gesto. Conquistano gli occhi dell’osservatore i colori, i giochi di luce ed ombra e i toni chiaroscurali del quadro, che in passato ne hanno determinato l’attribuzione a Caravaggio. Un David giovane e popolare, attribuito a Hendric van Somer, è ritratto a mezzo busto con il bacino avvolto da un drappo bianco, la cui mano sinistra poggia sulla testa ai Golia e con l’altra regge la fionda con la quale l’ha sconfitto. La tela presenta tratti enigmatici non solo per quanto riguarda l’attribuzione, ma anche per la sua fisionomia, in quanto sullo strato inferiore si riscontrano figure di cavalli e cavalieri precedentemente dipinti, che ne dimostrano il suo reimpiego. Di estrema delicatezza e naturalezza trova spazio sulla parete destra della sala, la Madonna della rosa del cosiddetto “Guido Reni Partenopeo” Massimo Stanzione, il quale ha saputo innestare la spontaneità e la grazia dei sentimenti su un realismo di tipo caravaggesco dando una svolta fondamentale al tardomanierismo locale. Il dipinto ritrae la Vergine, restituita in tutta la sensibilità del sentimento materno, che regge sulle ginocchia Gesù recante in mano una rosa, senza spine, simbolo di purezza e rossa, simbolo del sangue versato. Un’importante attribuzione conservata in questa sala è il dipinto Gesù scaccia i mercanti dal Tempio, assegnato a Luca Giordano, che ritrae l’omonima scena evangelica, proponendo un giusto equilibrio tra realismo e gusto scenografico attraverso la resa particolareggiata dei dettagli, come le vesti, e l’uso di colori vividi che risaltano sotto un fascio di luce diffusa.

Passeggiando nella sala, l’occhio dell’osservatore rimane stupito dalla grandezza e dall’imponenza delle tele di Giovan Battista Beinaschi: Mosè fa scaturire l’acqua dalla rocca e Il Martirio di Sant’Erasmo, (quest’ultima, reinterpretazione in orizzontale dell’omonima opera di Nicolas Poussin per la Basilica di San Pietro a Roma). Complesse e fitte composizioni di figure, corpi avvolti da elaborati panneggi dominano la scena, immersi in tenebrose e cupe atmosfere. Colpisce il vigore naturalistico dell’opera, l’espressionismo dei volti e il pittoricismo visionario incupito in tonalità scure, appena squarciate da lampi di luce, che rendono le tele estremamente imponenti. D’altro canto, lo “spirito non ordinario” di Nicola Vaccaro, figlio del celebre Andrea, emerge nel dipinto Cristo e l’adultera e nelle Nozze di Cana. La composizione della scena raffigurante celebri episodi evangelici (Gv, 8, 1-11 e Gv, 2, 1-10) è costruita su scala monumentale e risulta affollata di personaggi. Il giovane Vaccaro ha saputo accomodare le sue diverse esperienze artistiche in un sobrio eclettismo di matrice barocca, arricchendo le scene con particolari ed elementi profani, che trovano il loro spazio all’interno di una spiccata vivacità cromatica.

Non da ultimo, chiude il percorso della sala VI la Sacra Famiglia di Angelo Solimena, datata 1670 circa e donata al Museo prima del 1978 da don Raffaele Carratù, parroco della chiesa di Mercato San Severino. La tela è dominata in primo piano dalle due figure femminili della Vergine, Gesù e Sant’Anna, mentre in secondo piano da i Santi Giuseppe e Gioacchino inseriti su uno sfondo architettonico costituito da mura e la base di colonna liscia. Espressione della fase matura dell’autore, l’opera condensa in essa elementi del naturalismo, del preziosismo barocco delle atmosfere caravaggesche dell’epoca.

Sala del ‘700

La Sala del Settecento ospita opere che consentono di valutare i caratteri salienti della cultura locale del secolo in connessione con le tendenze maturate nel centro partenopeo.

Al corpus già presso i depositi del Museo, si affiancano opere provenienti dal Palazzo Arcivescovile di Salerno, che intervengono a mediare il passaggio dalla precedente sala del “Seicento” riportando l’attenzione sulla produzione di Angelo Solimena, valorizzata anche in ragione del suo aggiornamento sulle novità introdotte dal figlio Francesco. Da qui la scelta di aprire la sezione con le quattro tele a soggetto veterotestamentario, già riconosciute come copie di Angelo degli originali di Francesco, ricordati dal biografo settecentesco Bernardo De Dominici quali “primizie de suoi pennelli”.

Il ribaltamento dei ruoli interviene a fissare l’avvio di un percorso di autodeterminazione che porterà Francesco Solimena a proporsi come principale referente per gli sviluppi della cultura figurativa meridionale: un risultato preavvisato dalla posizione raggiunta proprio nell’ambito della bottega paterna. La possibilità di verificare i termini della collaborazione tra padre e figlio è offerta dall’inedita Madonna del Rosario (già Salerno, Palazzo Arcivescovile), tanto più interessante dal momento che offre l’opportunità di verificare le radici culturali dei Solimena, quali si palesano già nella particolare scelta iconografica, rivolta a ottimizzare la traccia storica del culto rosariano. Alla presenza dei santi domenicani, che si dispongono ai lati della Madonna con il Bambino, secondo iconografia codificata dalla tradizione, si aggiunge la figura di Pio V, il divulgatore della devozione al Rosario.

A un fecondo dialogo con le novità introdotte da Francesco Solimena nel segno di una rivisitazione del linguaggio giordanesco, si presta l’Adorazione dei Magi, proveniente dalla donazione Ruggi d’Aragona, già ricondotta all’operato di Nicola Malinconico. La tela permette non solo di riconoscere il possibile bozzetto per l’esito in Santa Maria la Nova a Napoli, ma anche di individuare il modello di riferimento per la versione nella Concattedrale di San Michele a Sarno, favorendo un’ipotesi di datazione del dipinto entro il 1694, anno di completamento del ciclo di Episcopio.

Al circuito degli interventi di riqualificazione del complesso benedettino di San Giorgio a Salerno è da ricondurre la tela bifrons con Le sante Archelaide, Tecla e Susanna, il cui recente intervento di restauro ha permesso di dirimere la questione attribuzionistica, già oscillante tra Francesco Solimena e Orazio Malinconico, portando in luce la firma di Matteo Orgitano. Il recupero della tela risulta di particolare rilievo sia riguardo alla rivalutazione di figure considerate “minori” sia sul piano delle scelte iconografiche, consentendo anche specifici riferimenti a rapporti di committenza.

A momenti indicativi del processo di rinnovamento interno della Cattedrale salernitana sono invece da ricondurre le piccole statue degli Evangelisti e dei Santi Martiri: le prime in riferimento ai lavori per la Cappella Lembo (1722), le seconde a completamento della decorazione della Cappella Mazza (1725-28).

La possibilità di avvalorare il giudizio espresso in positivo dal De Dominici, che ricorda Ferdinando Sanfelice tra i migliori discepoli del Solimena, «che sempre l’ha amato con distinzione, così per i suoi costumi, come anche per averlo osservato di un talento così mirabile che doveva dar onore alla sua scuola», è sostenuta dalla sua Cena in Emmaus, pervenuta all’attuale collocazione dal Palazzo Arcivescovile di Salerno. La tela è tanto più interessante dal momento che interviene a confermare il perdurare di un interesse per la pittura, non assopito dalla scoperta passione per la progettazione architettonica.

Con il gruppo di tele di Matteo Chiarelli è possibile documentare un’adesione in chiave imitativa alle proposte di Francesco Solimena, evidente nella Madonna col Bambino e i santi Vito e Domenico esemplata sulla pala solimeniana per la chiesa napoletana di San Pietro Martire, di cui riprende il medesimo impianto. Una conferma in tal senso ci viene dalla Sacra Famiglia con santa Rosa da Lima, esemplata sul disegno del Maestro oggi al Louvre da cui deriva anche il modello al Museo della Badia di Cava, in cui si potrà riconoscere la piccola tela già inventariata nella collezione di Domenico Chiarelli. La ripresa di moduli solimeniani rimane una scelta d’obbligo ancora nella Madonna con Bambino, San Filippo Neri e San Francesco d’Assisi di Michele Ricciardi, datata al 1706. La precoce datazione del dipinto se ha indotto a riconoscerlo come il primo esito della serie per la chiesa abbaziale di Santa Maria delle Grazie a Penta, ha inoltre permesso di collocarlo all’avvio di quel processo di valorizzazione cultuale in senso mariano che costituirà una costante nella produzione del Ricciardi. La familiarità con l’esperienza solimeniana, qui evidente nella selezione e ricomposizione di formule adottate dal Solimena in diversi contesti iconografici, consentirà allo stesso Ricciardi di forzarne la carica normativa a favore di soluzioni più creative, quali si palesano nella Madonna del Rosario tra i santi Girolamo e Domenico, del 1740.

Sala del ‘700

La Sala del Settecento ospita opere che consentono di valutare i caratteri salienti della cultura locale del secolo in connessione con le tendenze maturate nel centro partenopeo.

Al corpus già presso i depositi del Museo, si affiancano opere provenienti dal Palazzo Arcivescovile di Salerno, che intervengono a mediare il passaggio dalla precedente sala del “Seicento” riportando l’attenzione sulla produzione di Angelo Solimena, valorizzata anche in ragione del suo aggiornamento sulle novità introdotte dal figlio Francesco. Da qui la scelta di aprire la sezione con le quattro tele a soggetto veterotestamentario, già riconosciute come copie di Angelo degli originali di Francesco, ricordati dal biografo settecentesco Bernardo De Dominici quali “primizie de suoi pennelli”.

Il ribaltamento dei ruoli interviene a fissare l’avvio di un percorso di autodeterminazione che porterà Francesco Solimena a proporsi come principale referente per gli sviluppi della cultura figurativa meridionale: un risultato preavvisato dalla posizione raggiunta proprio nell’ambito della bottega paterna. La possibilità di verificare i termini della collaborazione tra padre e figlio è offerta dall’inedita Madonna del Rosario (già Salerno, Palazzo Arcivescovile), tanto più interessante dal momento che offre l’opportunità di verificare le radici culturali dei Solimena, quali si palesano già nella particolare scelta iconografica, rivolta a ottimizzare la traccia storica del culto rosariano. Alla presenza dei santi domenicani, che si dispongono ai lati della Madonna con il Bambino, secondo iconografia codificata dalla tradizione, si aggiunge la figura di Pio V, il divulgatore della devozione al Rosario.

A un fecondo dialogo con le novità introdotte da Francesco Solimena nel segno di una rivisitazione del linguaggio giordanesco, si presta l’Adorazione dei Magi, proveniente dalla donazione Ruggi d’Aragona, già ricondotta all’operato di Nicola Malinconico. La tela permette non solo di riconoscere il possibile bozzetto per l’esito in Santa Maria la Nova a Napoli, ma anche di individuare il modello di riferimento per la versione nella Concattedrale di San Michele a Sarno, favorendo un’ipotesi di datazione del dipinto entro il 1694, anno di completamento del ciclo di Episcopio.

Al circuito degli interventi di riqualificazione del complesso benedettino di San Giorgio a Salerno è da ricondurre la tela bifrons con Le sante Archelaide, Tecla e Susanna, il cui recente intervento di restauro ha permesso di dirimere la questione attribuzionistica, già oscillante tra Francesco Solimena e Orazio Malinconico, portando in luce la firma di Matteo Orgitano. Il recupero della tela risulta di particolare rilievo sia riguardo alla rivalutazione di figure considerate “minori” sia sul piano delle scelte iconografiche, consentendo anche specifici riferimenti a rapporti di committenza.

A momenti indicativi del processo di rinnovamento interno della Cattedrale salernitana sono invece da ricondurre le piccole statue degli Evangelisti e dei Santi Martiri: le prime in riferimento ai lavori per la Cappella Lembo (1722), le seconde a completamento della decorazione della Cappella Mazza (1725-28).

La possibilità di avvalorare il giudizio espresso in positivo dal De Dominici, che ricorda Ferdinando Sanfelice tra i migliori discepoli del Solimena, «che sempre l’ha amato con distinzione, così per i suoi costumi, come anche per averlo osservato di un talento così mirabile che doveva dar onore alla sua scuola», è sostenuta dalla sua Cena in Emmaus, pervenuta all’attuale collocazione dal Palazzo Arcivescovile di Salerno. La tela è tanto più interessante dal momento che interviene a confermare il perdurare di un interesse per la pittura, non assopito dalla scoperta passione per la progettazione architettonica.

 

Con il gruppo di tele di Matteo Chiarelli è possibile documentare un’adesione in chiave imitativa alle proposte di Francesco Solimena, evidente nella Madonna col Bambino e i santi Vito e Domenico esemplata sulla pala solimeniana per la chiesa napoletana di San Pietro Martire, di cui riprende il medesimo impianto. Una conferma in tal senso ci viene dalla Sacra Famiglia con santa Rosa da Lima, esemplata sul disegno del Maestro oggi al Louvre da cui deriva anche il modello al Museo della Badia di Cava, in cui si potrà riconoscere la piccola tela già inventariata nella collezione di Domenico Chiarelli. La ripresa di moduli solimeniani rimane una scelta d’obbligo ancora nella Madonna con Bambino, San Filippo Neri e San Francesco d’Assisi di Michele Ricciardi, datata al 1706. La precoce datazione del dipinto se ha indotto a riconoscerlo come il primo esito della serie per la chiesa abbaziale di Santa Maria delle Grazie a Penta, ha inoltre permesso di collocarlo all’avvio di quel processo di valorizzazione cultuale in senso mariano che costituirà una costante nella produzione del Ricciardi. La familiarità con l’esperienza solimeniana, qui evidente nella selezione e ricomposizione di formule adottate dal Solimena in diversi contesti iconografici, consentirà allo stesso Ricciardi di forzarne la carica normativa a favore di soluzioni più creative, quali si palesano nella Madonna del Rosario tra i santi Girolamo e Domenico, del 1740.

Sala Arte e Fede

Inaugurata nel 2020, la Sala Arte e Fede nasce dall’idea di dedicare una sezione a dipinti di piccolo e medio formato, scelti, tra le opere custodite nei depositi, secondo un criterio selettivo rivolto a trasmettere il valore intrinseco di un patrimonio le cui potenzialità trascendono il piano estetico, rivelandosi nella sua essenza di documento del vissuto di fede della locale comunità cristiana. Da qui la proposta di ordinare la disposizione delle opere esposte in conformità a un principio dialogico spirituale, scevro dai condizionamenti formali e cronologici di una comunicazione meramente didascalica, per puntare a riscoprire il legame tra l’esperienza religiosa e la creatività artistica, vivificato nel proposito comune di rendere “visibile l’invisibile”. In questa prospettiva acquista un valore aggiunto la scelta di inaugurare il percorso con l’Ecce Homo attribuito al Barozzi: eikôn del Dio invisibile, ma anche immagine della pietà popolare. Questa trova la sua più feconda espressione nei ‘ritratti’ della Madre, compartecipe del destino del Figlio fin dall’annuncio angelico.

Nella Madonna che legge, i moduli figurativi, affini alle soluzioni tipiche di Carlo Dolci (rivisitate in un linguaggio cromatico più “terroso”, che spegne le brillanti tonalità del fiorentino), si accordano alla comunicazione dell’evento, alluso nel dettaglio del raggio del Verbo che rischiara la figura femminile, valorizzandola nel suo solitario raccoglimento, motivato dal particolare del libro che rimanda alle profezie messianiche. L’impatto della luce sul volto disegna l’ovale di Maria, mettendone in risalto il «naso lunghetto» e «le labbra tonde», oltre a evidenziare il riverbero dorato dei capelli, inducendo a ritenere possibile l’ipotesi di una conoscenza delle indicazioni iconografiche già offerte da Federico Borromeo e successivamente riprese da Pompeo Sarnelli nelle prescrizioni ad Angelo Solimena.

Il contributo dato da Pompeo Sarnelli a favore della teorizzazione di modelli figurativi a finalità devozionale trova continuità nelle scelte condotte nell’ambito della cerchia di Paolo De Matteis, a cui sarà possibile ricondurre la Madonna con il Bambino benedicente e l’Addolorata con il Volto Santo: tanto più interessanti in quanto consentono di valutare la declinazione del linguaggio dematteisiano nella modulazione offerta dai Sarnelli nell’ambito della devozione privata.

La possibilità di verificare la promozione di un messaggio edificante, in funzione del raggiungimento di una letizia interiore, è sostenuta dalla Vergine della Purità: questa, nel testimoniare la diffusione del modello iconografico fissato da Paolo de Majo in conformità al messaggio religioso propagandato da sant’Alfonso Maria de’ Liguori, permette di osservare il prevalere nel territorio di una religiosità più accostante e persuasiva. 

L’atteggiamento di Maria, nel fare leva sui valori spirituali dell’umiltà, della bontà e della purezza, restituisce un’immagine cordiale e colloquiale che, traducendo figurativamente la prosa “benigna” di sant’Alfonso, appaga la più istintiva devozione popolare, per cui Maria è celebrata nella sua premurosa funzione di intermediaria della Grazia.

L’aspirazione alla valorizzazione acquista allora il duplice significato di “attribuire valore” e di “ottenere valore” da un patrimonio artistico capace di trasmettere il sentimento del sacro, tracciando un percorso che trova il suo punto di convergenza nell’icona pietosa della Maddalena. Nel 1722 l’opera veniva segnalata nell’elenco dei quadri della collezione di Fabrizio Pinto con una attribuzione ad Andrea Vaccaro, rimarcata dallo stesso nobiluomo, per il quale la «Maddalena piangente» è «da migliore che habbi fatto Andrea Vaccaro, come hanno stimato tutti i pittori che l’han vista»; passata nella quadreria Ruggi d’Aragona, è citata nell’inventario del 1870 con una precisazione iconografica («Maddalena in atto di pentimento ravvisandosi… una testa di morto») funzionale alla definizione di una valenza devozionale espressa in chiave penitenziale. La tela è, sicuramente, una delle più conosciute del Museo.

Il piano terra ospita una serie di sale che seguono lo sviluppo dell’ampio e luminoso quadriportico, che lo rendono fruibile per ogni tipo di evento e manifestazione.

Sala Santa Caterina, Sala dell’Arcivescovo, Sala Conferenze, Hall

Sala dell'Arcivescovo

Sala Conferenze

Hall

Cappella Santa Caterina

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